Melluso
Testimoni del welfare

Mauro Melluso, responsabile Area Vulnerabilità Famigliare del Gruppo Abele a #TestimoniDelWelfare

Aggiornato il: 22 Febbraio 2022 -
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“Contro la violenza sulle donne ci vuole più comunità”

E’ notizia largamente diffusa che nel 2020 i casi di violenza famigliare, a causa delle limitazioni previste dalle misure anti-Covid, abbiano subito un aumento.

Queste situazioni tuttavia – ci spiega Mauro Melluso, responsabile dell’Area Vulnerabilità Famigliare del Gruppo Abele – sono emerse di solito solo successivamente, poiché le persone offese non avevano, durante il lockdown, la libertà di poter chiedere aiuto”.  E’ indicativa del disagio di quel periodo la notizia di cronaca riguardante una donna che, soltanto fingendo di ordinare delle pizze al telefono, è riuscita a telefonare alla polizia.

La stessa didattica a distanza ha penalizzato la possibilità di rilevare situazioni difficili tramite le testimonianze dei figli che frequentano la scuola, come spesso accadeva prima – prosegue Melluso – Sono infatti le reti di relazioni il miglior antidoto ai casi di violenza. Il peggiore nemico, diffusissimo nei casi di maltrattamento, è invece l’isolamento, specie nei casi in cui la donna non lavora ed è completamente priva di relazioni sociali”.

Mauro Melluso, laureato in psicologia, da vent’anni lavora al Gruppo Abele, e da tre è responsabile dell’Area Vulnerabilità Famigliare.

Tanti i progetti realizzati, non solo a sostegno delle persone offese, ma anche per cercare di rieducare chi commette violenza, e prevenire così ulteriori casi di maltrattamento.

“Spesso fungiamo da pronto soccorso per le situazioni più gravi, e accogliamo mamme e bambini in una comunità a loro dedicata, dove sono seguiti da figure professionali specifiche, in accordo con i servizi sociali.  Particolare attenzione viene data ai figli, molto spesso testimoni diretti delle violenze subite dalla madre o vittime essi stessi.

La vita in comunità agevola il recupero di relazioni positive, ma comporta purtroppo uno sradicamento dal contesto in cui mamma e bambino vivono, necessario anche per ragioni di sicurezza. Per questo motivo ci siamo chiesti se fosse possibile, almeno in alcuni casi, allontanare la persona maltrattante, e non le vittime, e provare con lui un percorso rieducativo. Da queste premesse è nato il progetto residenziale Opportunity, che ha azzerato le recidive per i 14 uomini che hanno seguito l’intero percorso, sostenuto da psicoterapeuti e psicologi. I numeri sono in aumento, nel 2020 abbiamo seguito con supporto psicologico 80 maltrattanti. Occorre avere la volontà di cambiare, ma anche questo è un passo che si può essere aiutati a compiere, specie nei casi in cui la persona da sola non riconosce la propria azione come violenta, ma trova scuse per accettare il proprio comportamento”.

Esistono situazioni in cui l’offeso è un uomo?

“Certo, anche se sono decisamente una minoranza. Nel nostro gruppo di accoglienza papà-bambino, dove seguiamo casi di fragilità famigliare, ne abbiamo alcuni in cui è il papà ad avere subito violenza”.

Ci sono classi sociali in cui si rileva un maggior ricorso alla violenza in ambito famigliare?

“I casi di violenza nelle famiglie sono assolutamente trasversali rispetto alla classe sociale. Non riscontriamo differenze in base al livello di istruzione o a parametri economici. E’ vero però che la maggioranza delle denunce proviene da italiani, ma questo soltanto perché per gli stranieri è più difficile affrontare la situazione, in un Paese che non è il proprio. Anche in questo caso, dunque, non vi sono differenze di rilievo.

E’ invece elemento comune a tutte le situazioni, come ho già detto, l’isolamento sociale della persona offesa. Vivere all’interno di una comunità coesa, ricca di relazioni è un sostegno importante anche in situazioni come queste.

Il lavoro del Gruppo Abele si declina in progetti che spesso prevendono l’inserimento in comunità alloggio proprio per questa ragione: non è un retaggio culturale degli anni Settanta, ma la possibilità concreta di sperimentare relazioni positive in un ambiente protetto e di capire che non si è soli”.

Il Gruppo Abele è un’associazione fondata da don Luigi Ciotti a Torino nel 1965. Saldare l’accoglienza delle persone con la cultura e la politica è la sua mission. Per il Gruppo “sociale” significa in primis diritti e giustizia, vicinanza a chi è in difficoltà e sforzo per rimuovere ciò che crea emarginazione e disuguaglianza, attraverso il lavoro insieme e la realizzazione di molteplici iniziative e  progetti. Il Gruppo è stato promotore di diverse associazioni e coordinamenti. Nel 1982 ha accompagnato la nascita del Cnca (Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza), mentre nel 1986 ha partecipato alla fondazione della Lila (Lega Italiana per la lotta all’AIDS). Sempre dal Gruppo Abele ha preso il via nel 1995 l’esperienza di Libera, rete di impegno contro le mafie che oggi riunisce più di 1.600 realtà italiane e straniere. Il Gruppo Abele aderisce al Forum del Terzo Settore in Piemonte, fin dal momento della costituzione, con la finalità di rafforzare le relazioni con le altre associazioni a vocazione sociale e culturale.

Lidia Cassetta